Intervista a Roberta Bruzzone

Venerdì 28 novembre alle ore 21 il Teatro Galleria di Legnano si prepara ad accogliere uno degli appuntamenti più intensi e attesi della stagione, con la presenza della dottoressa Roberta Bruzzone.

Noto volto della criminologia investigativa italiana, la dottoressa Bruzzone porta sul palco uno spettacolo di analisi cruda e senza filtri, intitolato  “DELITTI ALLO SPECCHIO”.
L’evento sarà un vero e proprio viaggio nell’oscurità dei due delitti che hanno maggiormente segnato l’opinione pubblica nell’ultimo ventennio in Italia: gli omicidi di Chiara Poggi e Meredith Kercher.

La nostra intervista si addentra subito nel cuore della questione, mostrandoci come l’analisi scientifica possa rimettere al centro ciò che è stato sacrificato: la verità e il rispetto per le vittime.

Dottoressa Bruzzone. Nel suo spettacolo lei guida il pubblico in un viaggio approfondito e privo di filtri nei casi giudiziari di Chiara Poggi e Meredith Kercher, due tra i delitti più controversi e discussi dell’ultimo ventennio in Italia. In che modo queste due storie e due inchieste, per molti versi speculari, riflettono la parte più nera della nostra società?

Questi due casi – Chiara Poggi e Meredith Kercher – sono molto più di due delitti mediaticamente esplosivi. Sono due specchi diversi dello stesso baratro: quello in cui la nostra società precipita ogni volta che l’emotività, il pregiudizio, il tifo da stadio e la manipolazione narrativa prendono il posto della razionalità, dell’analisi tecnica e del rispetto per la vittima.
Entrambi i casi raccontano, con una chiarezza quasi brutale, quanto sia fragile la percezione collettiva della verità. Bastano poche ore perché si inneschi una distorsione potentissima: la verità processuale viene sommersa dal rumore, dalle opinioni travestite da fatti, dalle versioni “comode” che alimentano il bisogno di schierarsi. E quando la realtà diventa un’arena, il caso giudiziario si trasforma in un fenomeno sociale che spesso non ha più nulla a che fare con la vittima, con le prove, con la ricostruzione criminologica.

Nel suo lavoro si parla di fallimento investigativo e di quante deviazioni passino lungo la strada per cercare la verità. Quali sono stati i principali passi falsi che hanno costellato la strada di questi due casi particolari e che lei porterà sul palco per il pubblico di Legnano?

Queste due vicende sono speculari perché mostrano due derive opposte ma complementari: da un lato, l’ossessione per il colpevole “perfetto”, dall’altro il bisogno compulsivo di costruire innocenti di comodo. In entrambi i casi, però, ciò che si perde di vista è la complessità del comportamento umano, la profondità delle dinamiche criminologiche, la sofferenza delle famiglie e – soprattutto – la vittima, che viene spesso sacrificata sull’altare del racconto più accattivante.
Questa è la parte più nera della nostra società: la tendenza a preferire la narrazione alla realtà, lo schema mentale al dato oggettivo, l’emozione alla prova. È un meccanismo antico, ma oggi, con la velocità e la violenza dei social, diventa ancora più devastante. Crea polarizzazione, alimenta odio, distorce la memoria collettiva e mette a rischio la serenità stessa dei processi.
Nel mio spettacolo guido il pubblico dentro questo territorio oscuro senza filtri, perché comprendere questi casi significa comprendere noi stessi: come reagiamo davanti al male, come costruiamo il colpevole, come manipoliamo – o subiamo – la narrazione dei fatti. E, soprattutto, quanto sia necessaria una cultura della complessità, della competenza e dell’ascolto della scena del crimine, se davvero vogliamo evitare di ripetere – come società – gli stessi errori all’infinito.

Ho letto che lei si ispira a una massima di Voltaire: “Ai vivi si devono dei riguardi ma ai morti si deve soltanto la verità”. Qual è l’elemento o l’indizio che, a suo avviso, è stato più sottovalutato o che ha generato i maggiori falsi miti mediatici in queste indagini, e che lei intende rimettere a fuoco attraverso la lente dell’analisi criminologica?

La massima di Voltaire non è soltanto un principio etico: è una bussola.
Perché nei casi di Chiara Poggi e Meredith Kercher la verità è stata spesso travolta da un’ondata di narrazioni alternative, suggestioni e “mitologie” mediatiche che nulla avevano a che fare con le prove.
Se devo indicare l’elemento più sottovalutato – o, meglio, più manipolato – direi che è la scena del crimine, in entrambe le indagini.
O è stata reinterpretata a piacere, o è stata raccontata come se fosse un set cinematografico, con dettagli decontestualizzati e ricostruzioni fantasiose che hanno condizionato per anni la percezione pubblica.
Il risultato? Una serie infinita di falsi miti: dinamiche impossibili, tempi incompatibili, comportamenti letti con categorie psicologiche inventate e una totale rimozione del dato oggettivo.

Data la delicatezza e l’impatto emotivo dei casi di Chiara Poggi e Meredith Kercher, cosa si aspetta dal pubblico che verrà ad assistere? Si aspetta una platea critica, emotivamente coinvolta o, soprattutto, desiderosa di una lettura lucida e oggettiva dei fatti, in linea con la sua ricerca della verità?

Da chi verrà ad assistere mi aspetto tre cose, tutte profondamente umane e profondamente necessarie quando si parla di delitti che hanno segnato l’immaginario collettivo.

Primo: mi aspetto un pubblico emotivamente coinvolto.
Ed è normale che sia così. Chiara Poggi e Meredith Kercher non sono astrazioni: sono due giovani donne che hanno perso la vita in circostanze drammatiche. Portare quella storia sul palco significa inevitabilmente toccare corde profonde, perché dietro ogni delitto c’è una vittima, una famiglia, una comunità che non ha mai smesso di cercare risposte.

Secondo: mi aspetto un pubblico critico.
Non voglio spettatori passivi.
Voglio persone che non si accontentino della versione più comoda, o della narrazione che nel tempo è stata ripetuta fino a sembrare “vera”. Voglio una platea capace di porsi domande: perché quella dinamica? Perché quella condotta? Perché quella ricostruzione è credibile e un’altra no?
Lo spettacolo non dà consolazioni o risposte semplici, offre strumenti di analisi.

Terzo: mi aspetto – e soprattutto auspico – un pubblico desideroso di verità.
Una verità che non è mai urlata, mai spettacolarizzata, mai piegata alle emozioni del momento.
La verità che interessa a me è quella che emerge dalla scena del crimine, dal comportamento, dalla logica criminologica.
Chi viene ad ascoltarmi sa perfettamente che non porto versioni “di tendenza”: porto fatti, analisi, ricostruzioni tecniche. E spesso questo significa ribaltare falsi miti, smontare narrazioni affascinanti ma sbagliate e riportare tutto su un piano oggettivo.

Alla fine, quello che mi aspetto davvero è un pubblico disposto a fare un viaggio di consapevolezza.
Chi entra in sala con questo spirito, esce con una comprensione molto più profonda non solo dei casi di Chiara e Meredith, ma anche – e soprattutto – dei meccanismi psicologici e sociali che condizionano il modo in cui percepiamo il male.

Qual è la sensazione, l’emozione o la nuova consapevolezza più importante, legata alla ricerca della giustizia, che desidera infondere nel cuore del pubblico di Legnano, affinché non dimentichino né Chiara Poggi né Meredith Kercher?

La sensazione che desidero lasciare al pubblico di Legnano è una consapevolezza semplice ma potentissima: la giustizia non è mai un esercizio astratto. È responsabilità, memoria e coraggio.
Chiara Poggi e Meredith Kercher non sono solo due nomi scolpiti nella cronaca: rappresentano il dovere di non distogliere lo sguardo, di continuare a cercare la verità anche quando è scomoda, complessa, impopolare.
Vorrei che ognuno, uscendo da questo incontro, portasse con sé la certezza che la giustizia non appartiene ai tribunali soltanto: appartiene alle coscienze.
E quando una comunità custodisce la memoria delle vittime con lucidità, fermezza e rispetto, allora quella memoria diventa un argine contro l’indifferenza.
A Legnano voglio lasciare questo: la consapevolezza che ricordare Chiara e Meredith significa scegliere da che parte stare, sempre, ossia dalla loro.

Intervista di Francesca Capri